Qual è lo “smartphone ideale” per gli italiani?

In un anno caratterizzato dall’andamento altalenante del mercato degli smartphone, l’interesse online in Italia ha mostrato invece una decisa crescita, chiudendo il 2020 con +60,6% di intenzioni d’acquisto rispetto al 2019. Sulla base dei filtri di ricerca più utilizzati sul proprio portale, Idealo ha delineato le caratteristiche dello smartphone ideale per gli italiani.  Secondo i dati emersi dalle ricerche online sul portale, l’utente medio italiano che vuole acquistare un nuovo smartphone ha chiaro in mente il tipo e le caratteristiche del prodotto desiderato, soprattutto iPhone 11 (8,1%), iPhone 12 (4,0%), Xiaomi Redmi Note 9 Pro (3,3%), Apple iPhone 12 Pro (2,8%), Samsung Galaxy A71(2,8%) e Apple iPhone SE 2020 (2,7%). 

Brand, caratteristiche tecniche e dimensioni dello schermo

La base di partenza di coloro che si apprestano ad acquistare uno smartphone online è il nome del produttore, e le ricerche in base al brand puntano ad Apple (31,9%), Samsung (24,5%), Xiaomi (19,1%), Huawei (7,7%) e OPPO (4,2%).Gli altri filtri di ricerca più utilizzati dagli utenti online riguardano le caratteristiche tecniche. Su 100 e-shopper, infatti, quasi 44 sono interessati al tipo di prodotto, e,tra i risultati le preferenze sono soprattutto per gli Smartphone 5G. Quasi 17 utenti poi sono interessati alle dimensioni dello schermo, con preferenza per gli smartphone da 5,5”, 9 utenti sono interessati alla memoria interna, con preferenza per gli smartphone da 128 GB e 4 utenti alla quantità di RAM, con preferenza per gli smartphone con RAM da 4GB.

Prezzo e colore della scocca 

Su 100 utenti online, inoltre, circa 7 e-shopper utilizzano il filtro “prezzo” nelle ricerche, e quasi la metà imposta un range tra i 100 e i 300 euro, concentrandosi su modelli non più vecchi di due anni e sfruttando il naturale deprezzamento registrato dai cellulari dopo il loro lancio. La scelta del colore della scocca dello smartphone segue un po’ i gusti, la moda, il genere e l’età dell’acquirente. Se bianco è il colore molto probabilmente più trendy per gli utenti più giovani, il nero è il primo colore scelto da Apple per le sue linee di telefoni; rappresenta una scelta classica e decisamente professionale.

Sono più gli uomini a cercare il cellulare dei sogni online

Nelle ricerche online le preferenze sono indirizzate senza dubbio verso i modelli color nero da 128 GB, riporta Italpress. Al secondo posto tra le preferenze di colore si posizionano a parimerito le ricerche con filtro nero/64GB e bianco/128GB. A seguire, tra i colori preferiti, troviamo il grigio, il blu, il rosso, il viola e l’argento. Sono d’altronde prevalentemente gli uomini a effettuare ricerche online nella categoria smartphone (67,1%) anche se, nell’ultimo anno, le donne sono aumentate più degli uomini, crescendo del +64,3% contro il +59,4% degli uomini.

Quali sono le app più utilizzate dai più giovani? YouTube, WhatsApp e TikTok

Per comprendere come sono cambiati gli interessi e le esigenze dei bambini nell’ultimo anno, Kaspersky ha condotto lo studio dal titolo Safe Kidsm, che ha preso in esame le query di ricerca, le applicazioni Android più popolari e le categorie di siti web più ricercate dagli utenti più giovani. E YouTube, WhatsApp e TikTok risultano le app più utilizzate,da questa categoria di utenti, con TikTok che nell’ultimo anno ha addirittura raggiunto il doppio della popolarità di Instagram.
Nella top 10 di Kaspersky si trovano anche quattro videogiochi per pc, Brawl Stars, Roblox, Among US e Minecraft.
E tra le categorie più ricercate, al primo posto “software, audio e video” (44%), seguito da “mezzi di comunicazione online” (22%) e “giochi per computer” (14%).

YouTube in testa con un ampio margine

Tra le applicazioni più popolari, YouTube è in testa con un ampio margine e continua a essere il servizio di video streaming più utilizzato tra i ragazzi di tutto il mondo. Al secondo posto si piazza l’app di messaggistica istantanea WhatsApp, seguita dal noto social TikTok. Quanto a YouTube, il 17% delle ricerche totali fatte da ragazzi e bambini riguarda i video musicali. Anche la categoria “tendenze” riscuote un discreto successo, con i video su “pop it and simple dimple” e “ASMR” che rappresentano il 4% delle query. Per quanto riguarda i gusti musicali, oltre alle band di K-POP tra cui BTS e BLACKPINK e i cantanti Ariana Grande, Billie Eilish e Travis Scott, è stato individuato un nuovo trend musicale, il ‘phonk’.

Nella top 10 anche quattro videogiochi per pc

Se guardiamo ai videogiochi, quelli più popolari tra ragazzi e bambini sono gli ormai noti Minecraft (23%), Fortnite (7%) Among Us (4%), a cui si aggiungono Brawl Stars (6%) e il tanto amato Roblox (4%).  Quest’ultimo è presente nella top 10 dei giochi più apprezzati dai ragazzi in quasi tutti i Paesi presi in esame. Tra tutte le aree geografiche, il Kazakistan con il 26% è quello in cui si registra una maggiore tendenza a visitare siti dedicati ai giochi per pc, seguito dal Regno Unito con il 19%. La situazione cambia se si guarda ai dati dell’India, dove i bambini non hanno quasi mai visitato siti dedicati ai videogiochi (solo il 5%).

TikTok rimane il principale trendsetter musicale per i bambini

I bambini in questo ultimo anno hanno sfruttato il web anche per imparare. Nello specifico, è stata rilevata una crescita di interesse verso i video “creativi” come i beat e le lezioni di musica, e TikTok rimane il principale trendsetter musicale per i bambini. Per quanto riguarda i video più ricercati, riporta Askanews, con il 50% si confermano in cima alla classifica i cartoni animati, mentre al secondo posto gli show televisivi, con The Voice Kids al primo posto delle ricerche più frequenti in lingua inglese. Per film e serie TV, i trailer più popolari sono stati Godzilla vs Kong, Justice League di Zach Snyder e la miniserie Disney+ WandaVision. Anche Netflix continua ad attirare l’attenzione di molti bambini, soprattutto per Cobra Kai e Stranger Things.

Il digitale mette il turbo alle PMI, ma la strada è ancora lunga

Il 2020 è stato l’anno in cui le aziende, anche quelle piccole e medie, si sono dovute reinventare per poter sopravvivere alle tante limitazioni imposte dal Covid-19. Si tratta di un numero importante di attività, dato che le circa 220 mila PMI (imprese con un numero di addetti compreso tra 10 e 249, con meno di 50 milioni di euro di fatturato) costituiscono un pilastro del tessuto imprenditoriale italiano, rappresentando il 41% del fatturato nazionale, il 38% del valore aggiunto ed il 33% degli occupati. Durante la pandemia, il digitale è stato una vera e propria ancora di salvezza per queste realtà, spingendo forzatamente le PMI verso le tecnologie digitali. Come ha spiegato Andrea Rangone, Responsabile Scientifico degli Osservatori Digital Innovation “Nella sua drammaticità, la pandemia ha costretto le PMI a riflettere sulla loro visione di futuro, portandole sempre più ad abbracciare il digitale come strumento di sviluppo. Sul campione analizzato, le PMI più mature digitalmente mostrano una più elevata resilienza e produttività: risultano avere in media prestazioni economiche migliori rispetto alle altre in termini di utile netto (+28%), margine di profitto (+18%), valore aggiunto (+11%), ed EBITDA (+11%), oltre ad avere riscontrato minori rallentamenti operativi quando si è verificata l’emergenza da Covid-19”.

La spinta dovuta alla crisi

“Nell’ultimo anno, infatti, la crisi ha rappresentato per le PMI una spinta obbligata verso quegli strumenti digitali che aiutassero da un lato a portare avanti l’operatività aziendale e, dall’altro, a sostenere i fatturati in forte contrazione” emerge dalla survey realizzata in collaborazione con Capterra. Le piccole e medie imprese che si sono attivate nel commercio elettronico sono storicamente rimaste indietro rispetto alle grandi aziende e alle controparti europee, ma negli ultimi mesi sono aumentate di oltre il 50% rispetto al periodo precedente al Covid: tale incremento è dovuto principalmente alla maggiore presenza sulle piattaforme e-commerce di terze parti, alle quali le PMI si sono rivolte per la possibilità di attirare nuovi clienti durante la chiusura obbligatoria dei canali fisici.

E-commerce al centro degli investimenti

Per 4 PMI su 20, inoltre, il commercio elettronico sarà al centro degli investimenti nel 2021. La diffusione dello smartworking, del lavoro a distanza, la pratica della rotazione dei dipendenti e la necessità di isolamento sociale hanno portato a un aumento del tasso di adozione di soluzioni digitali per lo scambio di dati e informazioni aziendali. Ancora, nove PMI su dieci gestiscono elettronicamente i loro documenti aziendali, però nell’ultimo periodo è cresciuto esponenzialmente  l’utilizzo dei servizi in Cloud.

Italiani e pensione, un desiderio quasi impossibile

Quali sono le opinioni degli italiani riguardo alla pensione? Quali le aspettative e i desideri? A quanto pare i nostri connazionali hanno una fiducia irrealistica sulla pensione, tanto che il 76% vorrebbe poter smettere di lavorare prima dell’età pensionabile e i ventenni vorrebbero avere l’assegno a 55 anni. E se il 30% dei cinquantenni non ci ha mai neanche pensato, tra chi invece lo ha fatto il 29% indica 60 anni. Inoltre, tra coloro che dichiarano di sapere quando andranno in pensione, un terzo afferma 67 anni, e i ventenni vorrebbero poter smettere di lavorare addirittura a 55 anni.

Si tratta di alcune evidenze emerse da una ricerca a cura di Moneyfarm e Progetica.

Aspettative e realtà non coincidono

Secondo la ricerca, se i 70 anni sono indicati come età probabile da un numero piuttosto esiguo di persone, mentre un buon numero (32%) dovrà lavorare fino a 5 anni in più rispetto alle proprie attese, il 26% dovrà lavorare tra 6 e 10 anni in più rispetto alle attese, e il 17% addirittura oltre 10 anni in più. Inoltre, solo per il 18% dei casi il desiderio “quando vorrei smettere di lavorare” e la realtà, “quando potrò davvero andare in pensione”, coincidono. La stragrande maggioranza, il 76%, vorrebbe poter smettere di lavorare prima dell’età della pensione.

Cinque persone su 10 non sanno a quanto ammonterà l’assegno

L’ottimismo si smorza sull’ammontare dell’assegno: solo un 3% pensa che avrà una pensione più alta dei propri desideri, mentre per il 90% la pensione sarà più bassa rispetto ai propri desideri. Il dato allarmante, secondo Moneyfarm, è che 5 persone su 10 non sanno quanto percepiranno di pensione, riporta Adnkronos. Dalla ricerca, “si evince un pericoloso presentismo, che lascia ancora ben poco spazio alla pianificazione – si legge nella ricerca -. Il futuro non è sufficientemente tenuto in considerazione nelle scelte di investimento, e in particolar modo, in quelle legate alla pensione. La mancanza di una cognizione realistica riguardo le tempistiche della pensione porta le persone a fare scelte sbagliate”.

Un ottimismo ingiustificato da parte dei risparmiatori

“Nonostante alcune evidenze siano ormai da anni sulla bocca di tutti e nonostante i numerosi interventi legislativi, da questa ricerca emerge un ottimismo purtroppo ingiustificato da parte dei risparmiatori italiani – spiega Giovanni Daprà, co-fondatore e amministratore delegato di Moneyfarm -. La consapevolezza è il primo passo per fare la scelta giusta: investire. A maggior ragione, quando gli incentivi fiscali destinati a chi decide di investire per la pensione sono così interessanti”.

L’occupazione in Italia, uno studio di Eurispes

Tra il 2010 e il 2020 in Italia sono stati creati 376,91mila nuovi posti di lavoro (+1,67%): un aumento dell’occupazione che però non è stato omogeneo all’interno del Paese. Se infatti il Mezzogiorno ha visto una diminuzione di 105,28mila posti di lavoro (-1,71%) il Centro ha aumentato gli occupati di 168,59mila unità, e il Nord di 313,60mila. Inoltre, se a partire dal 2013 in tutto il Paese si è riscontrata una crescita costante, interrotta nel 2020 a causa dell’emergenza da Covid-19, nel Mezzogiorno tale crescita non è riuscita a compensare il brusco calo avvenuto tra il 2013 e il 2014. Si tratta di alcuni risultati emersi da uno studio Eurispes sull’andamento temporale e territoriale dei dati sull’occupazione.

L’analisi a livello territoriale dal 2010 al 2020

Se si esaminano le dinamiche occupazionali nelle singole regioni emerge un quadro più variegato rispetto alla classica dicotomia Nord-Sud. In base alle caratteristiche dell’andamento temporale degli occupati, si possono catalogare le regioni in 5 gruppi, che risultano essere eterogenei rispetto alla collocazione geografica. Il primo gruppo è quello delle regioni più virtuose, che hanno avuto una crescita costante e lineare per tutto il periodo d’osservazione. Il gruppo è composto da Lombardia, dove i posti di lavoro sono aumentati di 226,78mila (+5,43%), Lazio (+143,11mila posti, +6,52%), Trentino-Alto Adige (+24,77 mila occupati +5,33%), ed Emilia- Romagna (+83,27mila unità, +4,37%).

Il Friuli-Venezia Giulia è l’unica regione che non ha visto un calo nel 2020

Nel secondo gruppo ci sono altre regioni che hanno visto un aumento nei posti di lavoro, ma che, a differenza delle prime, hanno iniziato la crescita solo tra il 2013 e il 2015. Sono quindi regioni in espansione, ma meno resilienti rispetto al primo gruppo. Ne fanno parte Toscana (+45,8mila, +2,98%), Veneto (+32,95mila posti, +1,58%), e Friuli-Venezia Giulia (+9,80mila, +1,94%), l’unica regione che non ha visto un calo nell’anno della pandemia. Nel terzo gruppo invece, rientrano le regioni che hanno dimostrato di essere resilienti senza mostrare capacità di crescita, riuscendo a tornare ai livelli precedenti la crisi, ma senza un significativo aumento dei posti di lavoro. Si tratta di Basilicata, Campania, Umbria e Abruzzo.

In Sicilia i livelli occupazionali sono diminuiti in termini assoluti e relativi

Il quarto gruppo riunisce le regioni che non sono state in grado di recuperare i livelli occupazionali precedenti la crisi economica. Sono quindi regioni che rispetto al 2010 hanno perso posti di lavoro piuttosto che crearli, come Puglia (-0,05%), Molise (-0,72%), Sardegna (-3,66%), Piemonte (-2,13%), Marche (-3,22%) e Calabria (-6,14%). Nell’ultimo gruppo ci sono poi le regioni il cui livello occupazionale è rimasto vicino a quello della crisi dei debiti sovrani. Appartengono a questo gruppo le regioni che hanno perso il maggior numero di posti di lavoro negli ultimi 10 anni: Liguria (-3,65%), Valle d’Aosta (-4,56%), e Sicilia, la regione dove i livelli occupazionali sono diminuiti più significativamente, sia in termini assoluti sia in termini relativi (-6,47%).

Non solo smart worker, servono anche smart manager

È da un anno che la maggior parte delle imprese italiane ha imparato a misurarsi con lo smart working. Se all’inizio della pandemia si è trattato di improvvisare con il passare dei mesi, caratterizzati dalle misure messe in atto per contenere il diffondersi del virus, il lavoro a distanza è diventato sempre più un processo regolato e pianificato. Ed è stata propria la ricerca di una maggior efficacia nel lavoro a distanza a sottolineare il fatto che il lavoro da remoto emergenziale in realtà non è vero smart working. Affinché si possa effettivamente parlare di quello che la legge italiana definisce “lavoro agile” è infatti necessario assicurare maggiore libertà al dipendente. Non basta insomma lavorare da casa per fare uno smart worker.

Servono orari flessibili e strumenti digitali avanzati per lavorare da casa

Servono quindi anche orari flessibili e strumenti digitali avanzati per facilitare il compito al di fuori dell’ufficio. Ma non solo, come puntualizza Carola Adami, ceo di Adami & Associati, per rendere davvero possibile ed efficace lo smart working è necessario poter contare su manager altrettanto “smart”. “Durante il lockdown del 2020 abbiamo assistito a un lavoro a distanza imposto, e non liberamente scelto dalle aziende o dai dipendenti – spiega l’head hunter – mentre oggi si parla di un processo più ragionato, in cui è effettivamente possibile ripensare al metodo di lavoro aziendale. I primi a dover cambiare passo da questo punto di vista sono i manager, i quali devono essere in grado di gestire in modo efficace i propri team anche da remoto”.

Allenare la squadra a lavorare per obiettivi e per risultati

“Per raggiungere questo obiettivo il cosiddetto smart manager deve riuscire ad allenare la squadra a lavorare per obiettivi e per risultati – continua Adami – sostituendo i vecchi schemi fatti di orari e di mansioni graniticamente definite”. Il passaggio più delicato, afferma l’head hunter, potrebbe essere “quello di equilibrare in modo corretto il controllo della persona con quello dei risultati, lavorando sul rapporto di fiducia con i sottoposti”. Gestire questo nuovo modello di lavoro, per i manager, significa controllare il proprio team in modo differente, imparare a delegare più di quanto fatto in passato, e impegnarsi a mantenere il contatto continuo con tutta la squadra, attraverso chiamate individuali o meeting di pianificazione, fondamentali in caso di assenza fisica.

Ai manager di oggi sono richieste ulteriori soft skills

“Ai manager, al giorno d’oggi e in un contesto come quello che stiamo imparando a conoscere, sono richieste ulteriori soft skills, e in particolare una marcata capacità di adattamento”, sottolinea Carola Adami, aggiungendo che “chi è chiamato a gestire un team in questo mondo sempre più digital e dinamico deve essere capace di avere una visione d’insieme e, nel medesimo momento, essere in grado di analizzare il dettaglio, mantenendo sempre il proprio focus pur all’interno di uno scenario frammentato”.

Criminalità e Pmi, nel 2019 segnalate 105.000 operazioni di riciclaggio

Nel 2019 sono state segnalate all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia oltre 105 mila operazioni sospette di riciclaggio, un record mai toccato prima.  Si tratta di presunti illeciti compiuti in massima parte da organizzazioni criminali che cercano di reinvestire in aziende o settori “puliti” i proventi economici derivanti da operazioni illegali. Nel primo quadrimestre 2020 la Uif ha ricevuto 35.927 segnalazioni, con un incremento del 6,3% rispetto allo stesso periodo del 2019.  L’allarme arriva dall’Ufficio studi della CGIA, secondo il quale le organizzazioni criminali fatturano 170 miliardi all’anno, “praticamente lo stesso Pil della Grecia”, commenta il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo.

Un importo che non include i proventi economici provenienti da reati violenti, ma solo da transazioni illecite come contrabbando, traffico di armi, scommesse clandestine, smaltimento illegale dei rifiuti, gioco d’azzardo, ricettazione, prostituzione e la vendita di sostanze stupefacenti.

Meno soldi dalle banche, più ricorso al credito “facile”

La conferma dell’importanza del giro d’affari delle organizzazioni criminali emerge anche dal numero di segnalazioni pervenute in questi ultimi anni all’Uif. In particolare, operazioni economico-finanziarie sospette denunciate a questa Unità da parte degli intermediari finanziari come istituti di credito, uffici postali, notai, commercialisti, gestori di sale giochi, società finanziarie, assicurazioni. Le principali forme tecniche che nel 2019 hanno originato le segnalazioni hanno riguardato in particolar modo, bonifici nazionali, money transfer e le transazioni avvenute in contanti. Secondo l’Ufficio studi della CGIA, l’aumento delle segnalazioni di riciclaggio potrebbe trovare una sua giustificazione nel fatto che in questi ultimi anni gli impieghi bancari alle imprese hanno subito una contrazione molto forte. Pertanto, non è da escludere che avendo ricevuto meno soldi dagli istituti di credito tanti imprenditori, soprattutto piccoli, si siano rivolti a coloro che potevano erogare credito con una certa facilità.

Campania, Lombardia e Liguria le regioni più a rischio

A livello territoriale le Regioni più colpite nel 2019 sono state la Campania (222,8 segnalazioni ogni 100 mila abitanti), la Lombardia (208,1) la Liguria (185,3) e la Toscana (184). Le realtà meno interessate, invece, sono state l’Abruzzo (115,7 ogni 100 mila abitanti), l’Umbria (110,3) e la Sardegna (86,6).

Rispetto al 2018, Sicilia (+26,3%), Molise (+23,8%) e Basilicata (+17,4%) sono state le regioni che hanno registrato le variazioni percentuali di crescita del numero di segnalazioni più importanti. Le uniche regioni in controtendenza sono state invece il Piemonte (-0,5%), la Toscana (-1,6%), l’Umbria (-3,3%) e la Valle d’Aosta (-4,3%).

Prato, Milano e Imperia le province con più segnalazioni di riciclaggio

A livello provinciale le realtà che nel 2019 hanno registrato il più alto numero di segnalazioni giunte all’Unità informazione finanziaria ogni 100 mila abitanti sono state Prato (344,6 ogni 100 mila abitanti), Milano (337,1), Imperia (275,9), Napoli (270,7), Trieste (235,8), Parma (225) e Caserta (209,4).

Quelle meno investite, invece, riguardano L’Aquila (76,9), Chieti (75), Nuoro (46,5) e il Sud Sardegna (45,9). La media nazionale è stata pari a 175,3 ogni 100 abitanti.

La Corte di giustizia europea invalida il Privacy Shield

La Corte Ue ha invalidato il Privacy Shield. La Corte di Giustizia Ue ha infatti dichiarato invalida la decisione della Commissione sull’adeguatezza della protezione offerta dal regime dello scudo Ue-Usa per la privacy. Questo, a causa del rischio rappresentato dai programmi di sorveglianza americani sulla protezione dei dati. Il caso trae origine dalla denuncia di un cittadino austriaco, i cui dati furono trasferiti, in tutto o in parte, da Facebook Ireland verso server appartenenti a Facebook Inc., situati nel territorio degli Stati Uniti, ove sono oggetto di trattamento.

Delusione da parte degli Usa

Gli Usa si sono dichiarati “profondamente delusi” per la decisione della Corte Ue, riporta Ansa. “Stiamo studiando la decisione per comprenderne appieno l’impatto pratico – ha commentato il segretario Usa al Commercio Wilbur Ross -. Speriamo di limitare le conseguenze negative per le relazioni economiche transatlantiche, pari a 7,1 trilioni di dollari, che sono così vitali per i nostri rispettivi cittadini, aziende e governi. I flussi di dati sono essenziali non solo per le aziende tecnologiche, ma anche per le aziende di ogni dimensione in ogni settore – ha aggiunto Ross -. Man mano che le nostre economie continuano il loro recupero post-Covid-19, è fondamentale che le aziende, inclusi gli oltre 5.300 attuali partecipanti allo scudo per la privacy, siano in grado di trasferire i dati senza interruzione, coerentemente con le forti protezioni offerte dal Privacy Shield”.

Una vittoria per gli attivisti della privacy 

Una sentenza, quella dell’istanza con sede a Lussemburgo, arrivata a sorpresa e che di fatto annulla un accordo di trasferimento dati ampiamente utilizzato dall’Ue e dagli Stati Uniti. Secondo la Corte Ue, “ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) il trasferimento dei suddetti dati verso un Paese terzo può avvenire, in linea di principio, solo se il Paese terzo considerato garantisce a tali dati un adeguato livello di protezione”, si legge nella decisione dei giudici. L’annullamento del Privacy Shield però è una vittoria per gli attivisti della privacy, che da tempo accusano gli Stati Uniti di pratiche invasive di sorveglianza inammissibili da applicare anche sui cittadini europei. 

Un duro colpo al business delle grandi aziende tecnologiche

La decisione dei giudici potrebbe creare diversi problemi alle multinazionali americane ed europee, soprattutto tecnologiche, che proprio sul trasferimento di questi dati, e sul loro utilizzo, fondano buona parte del loro business, riporta Agi. La sentenza, ad esempio, potrebbe costringere società come Facebook, Apple o Google a dover ripensare la propria strategia industriale, o ad affrontare costi notevoli per la creazione di centri per la raccolta dati in Europa. 

L’effetto smart working sull’ambiente urbano

Oltre ai benefici in termini di tempo personale liberato lo smart working libera anche l’ambiente urbano. Meno mobilità si traduce infatti in un taglio di emissioni, e a livello economico 4 milioni di euro risparmiati per il mancato acquisto di carburante. Lo dimostra l’indagine nazionale Il tempo dello Smart Working. La PA tra conciliazione, valorizzazione del lavoro e dell’ambiente, realizzata da Enea nel triennio 2015-2018. All’indagine hanno aderito 29 amministrazioni pubbliche e oltre 5.500 persone, di cui il 60% ha risposto a un sondaggio. Lo studio, spiega Enea in una nota, “evidenzia che esistono i presupposti per modifiche di comportamento stabili, su larga scala, in grado di incidere su livelli di congestione e di inquinamento e che è possibile impostare con successo policy urbane integrate, aprendo a una maggiore flessibilità nella scelta di luoghi e tempi di lavoro”.

46 milioni di km evitati e -8mila tonnellate di CO2 nell’aria

Sotto il profilo ambientale emerge che lo smart working ha ridotto la mobilità quotidiana di circa un’ora e mezza in media a persona, per un totale di 46 milioni di km evitati, pari a un risparmio di 4 milioni di euro di mancato acquisto di carburante, riporta Adnkronos. Da qui il duplice beneficio di tempo personale liberato e di traffico urbano evitato, con un taglio di emissioni e inquinanti che Enea stima in 8mila tonnellate di CO2, 1,75 di PM10 e 17,9 di ossidi di azoto. “I risultati assumono un particolare significato in questi giorni in cui circa il 75% dei dipendenti pubblici lavora in modalità smart working”, spiega Marina Penna, ricercatrice Enea.

Post Covid-19, il rimbalzo sui consumi di carburanti e sulle emissioni

“L’emergenza ci ha di fatto costretti a mettere in atto tali modifiche straordinarie e oggi siamo in grado di misurarne gli effetti – continua Penna -. Dal momento che il calo di emissioni non è strutturale, ma si lega a condizioni di emergenza il timore è l’effetto rimbalzo sui consumi di carburanti e sulle relative emissioni. Le conseguenze sarebbero pesanti sia per l’avvio di una fase di crescita, che allontanerà l’Italia sempre più dai target dell’accordo di Parigi sia per il repentino incremento dei costi dei carburanti, che aprirebbe il fianco a speculazioni estremamente penalizzanti per la nostra economia”.

Coordinare la domanda di spostamenti casa-lavoro con il trasporto pubblico locale

Per uscire da questa emergenza sanitaria lo smart working andrà mantenuto, potenziato e reso più efficace. “Soprattutto nelle grandi città, in assenza di misure si prospetta un massiccio ricorso al mezzo privato che offre una percezione di sicurezza dal contagio – osserva Penna -. Opportunamente governato a livello territoriale, il ricorso allo smart working consentirebbe infatti di moderare e modulare la domanda di spostamenti casa-lavoro in modo coordinato con la programmazione del trasporto pubblico locale, operazione particolarmente utile nella fase 2 dell’emergenza Covid-19, in cui dovremo trovare gli adattamenti per convivere con il coronavirus”.

Smart working, non è fare a distanza ciò che si fa in ufficio

In Italia si usa la definizione smart working per identificare concetti molto diversi tra loro, come telelavoro, lavoro in mobilità, lavoro agile e lavoro flessibile. In questi giorni, il termine smart working sale alla ribalta, e la confusione aumenta. Secondo Francesco Frugiuele, fondatore e Ceo di Kopernicana, società di consulenza specializzata nel settore, lo smart working non è fare a distanza le stesse cose nello stesso modo. Occorre sviluppare schemi di lavoro, routine giornaliere, modalità di comunicazione e interazione e pianificazione molto diversi da quelli utilizzati in un ambiente lavorativo tradizionale. Insomma, lo smart working non è la replica di un ufficio con lavoratori remoti.

“Inizia quando il lavoratore può iniziare a decidere quando e come lavora”

La prima credenza errata sullo smart working è che renda meno produttivi rispetto al lavoro in ufficio. Al contrario. “Se supportati da un po’ di disciplina e da adeguati modelli di gestione del lavoro per obiettivi da casa si è straordinariamente più efficaci – spiega Frugiuele all’Adnkronos -. Per non parlare del tempo di spostamento che viene azzerato”.

La seconda è che lo smart working riguardi sostanzialmente gli strumenti tecnologici. “Lo smart working è sicuramente dipendente da tecnologie e strumenti, ma ancora di più dipende dalla capacità di riorganizzarsi su due dimensioni, personale e aziendale – continua l’esperto -. Lo smart working inizia quando il lavoratore può iniziare a decidere quando e come lavora”.

Non basta dare un portatile e una connessione Internet ai dipendenti

Non è sufficiente, quindi, “dare un portatile e una connessione Internet ai nostri dipendenti – sottolinea – Frugiuele -. Ci sono organizzazioni che stanno sperimentando soluzioni di smart working a una dimensione mai provata prima. Pubbliche amministrazioni, grandi e piccole organizzazioni nel giro di 2 settimane hanno dato strumenti e possibilità a migliaia di dipendenti per attivarsi come smart workers. Questo pone, presto o tardi, tutti nelle condizioni di farsi la domanda ‘come possiamo fare in modo che i team di lavoratori distribuiti collaborino efficacemente? O come possiamo controllare la produttività?” Una prima risposta è: iniziando a fidarsi di loro. “I nostri collaboratori sono adulti – commenta Frugiuele – smettiamo di trattarli come se fossero bambini”.

Il cambiamento sarà permanente

Un terzo punto fondamentale è che il cambiamento sarà permanente. “Questa epidemia ci sta costringendo a una trasformazione che assomiglia moltissimo a un ‘aggiornamento di sistema’- continua Frugiuele -. Non sarà né semplice né saggio provare a tornare indietro, anche quando crederemo che questo sia possibile”.

Per ognuno lavorare smart richiede disciplina, ordine, iniziativa, capacità di separare i tempi privati da quelli lavorativi. “Stiamo già migliorando noi stessi e le nostre organizzazioni – afferma ancora il Ceo di Kopernicana -. Le condizioni imposte dal distanziamento sociale necessario per uscire dalla crisi attuale stanno già producendo dei cambiamenti, in meglio. Dal punto di vista di chi, come me, studia le dinamiche organizzative, questa situazione critica sta agendo come fattore evolutivo per le organizzazioni”.